Le vostre storie
Olivermax di Romi (quinta parte)
Per
quanto facesse freddo e spesso piovesse, proseguii per la mia strada. Oltre
un cavalcavia, presi una decisione pericolosa, ma non vedevo altre possibilità.
Avevo camminato sempre dalla parte del mare mentre, in realtà, la corsia dell'autostrada che andava in città correva dal lato monte. Dal cavalcavia in poi la corsia che m'interessava si addentrava in pianura mentre l'altra restava accanto al mare. Se fossi restato dal lato della costa sarei incappato in una serie di paesini e mi sarei perso. Dovevo attraversare l'autostrada prima che le due corsie si separassero definitivamente! Guardavo le macchine sfrecciare, pensavo ai cani ed ai gatti che avevo visto morti sull'asfalto e mi sentivo male. Di sera c'era meno traffico ma io, da marrone, ero quasi diventato nero, era più facile non vedermi, ed anch'io avrei visto di meno. Scelsi il pomeriggio, quando di solito gli umani sono ancora a tavola a mangiare. |
Raccolsi
tutto il mio coraggio. Dovevo star calmo, non lasciarmi prendere dal panico,
non mettermi a correre insensatamente.
Quando mi parve il momento buono, feci appello alle mie zampe e mi misi a correre.
Superai la prima corsia senza problemi, poi mi piombò addosso un bolide
clacksonando. Ce la feci per un pelo. M'infilai terrorizzato nello sparticarreggiate.
Rimasi lì il tempo sufficiente per convincermi che mi ero messo in una
situazione assurda dalla quale non sarei uscito vivo. Ma perché l'avevo
fatto? Perché non ero rimasto dalla parte del mare? Scoppiai a piangere
come un cucciolo. Morto per morto, però, tanto valeva tentare, e con
lucidità. Mi concentrai, feci alcune finte partenze, alla fine scattai!
Ci riuscii, non mi parve vero. Ero dall'altra parte dell'autostrada ed ancora
vivo!
L'inconveniente
dell'altro lato dell'autostrada era che, se è possibile, faceva ancora
più freddo. Per dormire ero costretto ad inoltrarmi tra gli alberi, non
potevo restare sul ciglio della strada, sia per via dei randagi sia perché
gli automobilisti non mi avrebbero visto.
Sotto gli alberi faceva davvero molto freddo, e pensare che, un tempo, avevo
avuto la mia cuccia, la mia coperta, il mio letto con Sonia. Di notte mi raggomitolavo
tutto, se trovavo delle foglie o della carta mi mettevo sotto. Ogni mattina
mi svegliavo dolorante e con la pelliccia umida.
Non
mi parve vero, quindi, scorgere un grande parcheggio all'orizzonte. Mi precipitai
ma, com'è ovvio, vi trovai dei cani titolari. Erano ben piazzati,
ben nutriti, tutti muscoli e denti. Non avrei potuto dormire accanto ad
un bel motore caldo, peccato. Di fianco al parcheggio c'era, invece, un
enorme deposito di rottamazione. Lì c'erano ben due branchi, li sentii
al fiuto, roba da sudare freddo. Entrai con estrema cautela. Giunse subito
un giovane, una sentinella, che mi odorò tutto. Lasciai fare, con
la coda bassa e lo sguardo vago. "Che vai cercando?". "Una macchina in cui dormire". "Hai esperienze di motori?". "Ho abitato sei mesi in un box" (falso). La sentinella emise un latrato di richiamo. Arrivarono altri due cani ai quali fece un cenno d'intesa. Tornò a me. "Hai già fatto branco?". "Una volta". |
"Perché
hai lasciato?".
"Per andare in città".
"A fare che?".
"Cose mie".
"Non è che, per caso, ti hanno buttato fuori?" socchiuse gli
occhi fino a farli diventare due fessure.
"No".
Emise un altro latrato, giunsero altri quattro cani. 'Sta volta c'era il boss,
il più grosso di tutti, accompagnato dai suoi attendenti. La sentinella
parlò in un orecchio al capo, poi questi si rivolse a me.
"E che devi andare a fare in città, eh?".
"Devo cercare una persona".
"Vorrà dire che porterai i miei saluti a mio cugino che abita al
prossimo svincolo".
"Lo farò".
"Puoi restare per un po'".
"Grazie, capo".
"Però intendiamoci, regole fondamentali: le femmine non si toccano
o ti levo il pelo e in macchina non si piscia".
"Lo so, capo".
"Un'altra cosa, signorino. Qua ci danno da mangiare perché facciamo
la guardia. Tu starai a ovest, sotto il muro del parcheggio".
"Agli ordini. Grazie, capo".
Era andata liscia, da non crederci, senza neanche una zuffa, una ringhiata,
un morso.
Mi sistemai nel sedile di dietro di un'auto alla quale mancava solo un finestrino.
Se non pioveva troppo forte, non era male. Finalmente ero un po' al caldo. Stavo
molto attento ai rumori, il mio compito era di fare la guardia e in branco non
si scherza. Quando sentivo qualcosa di strano, uscivo e controllavo. Se era
tutto regolare, ululavo al cane che mi era più vicino, costui ululava
al suo vicino e così via finché la voce arrivava a tutti.Una
notte sentii un rumore metallico e, infreddolito, lasciai la mia cuccia. Mi
svegliai due giorni dopo con un bernoccolo in testa.
"Uè, ragazzo. Come ti senti?" furono le prime parole che udii,
era il capo.
"Mi hanno investito?" balbettai.
"Ah Ah Ah! No, t'hanno dato una bastonata".
"Non mi ricordo niente
".
"Ma sei stato bravo, veramente. Hai dato l'allarme e sei svenuto solo dopo
che siamo arrivati noi".
"Chi è stato?".
"Ladri, è ovvio! Ma non ci pensare più. Tirati su e mangia".
Stetti un po' in convalescenza, esonerato dal lavoro e ammirato dagli altri,
e dalle altre. Un gregario mi offrì persino un rarissimo, luccicante
osso, praticamente il massimo della stima. Non lo rosicchiai e lo regalai al
capo prima di andarmene. Non sapevo perché ma volevo lasciare un buon
ricordo di me.
Come prima
tappa cercai il cugino del capo. Costui, sulle prime, mi corse dietro, manco
mi diede il tempo di parlare. Quando finalmente si stancò, gli dissi
che venivo da parte del suo parente e allora mi accolse bene e mi fece anche
bere dalla sua pozza di acqua piovana.
Arrivai alle porte della città nel periodo in cui gli umani addobbano
gli alberi e si fanno regali. C'era un gran traffico e tutti erano nervosi ed
arrabbiati. Mi confusi. Ma io dove abitavo?! Mi piazzai nei pressi di due cassonetti
dei rifiuti e rimasi lì per un paio di mesi. Non c'era niente da fare:
non ricordavo, proprio ora che ero arrivato in città
mi ero perso!
Nei rifiuti più che altro trovavo resti di pasta, bucce di patate e di
frutta. Ero accanto ad un centro sociale, vedevo andare e venire ragazzi e ragazze,
qualcuno prese anche l'abitudine di salutarmi. Erano allegri, variopinti, alcuni
di pelle bianca altri scura, sentivano musica, suonavano tamburi, cantavano,
dipingevano sui muri, studiavano tutti insieme.
Una
volta il cancello rimase aperto ed io entrai. Quando se ne accorsero, non
mi scacciarono né mi trattarono male. "È anche lui un
rifugiato politico!" disse un ragazzone nero nero e gli altri risero.
Fu così che mi trasferii nel centro sociale. E non solo! I ragazzi
mi procurarono pure una coperta e delle scodelle, avevo acqua fresca a disposizione
e non c'era giorno in cui non mi dessero da mangiare. Ero contentissimo
di stare con loro. Mi chiamarono Mascotte. Non volevo fermarmi per sempre, Sonia era in cima ai miei pensieri, ma avevo bisogno di rimettermi un po' prima di continuare la mia ricerca. Avrei battuto ogni via, ogni piazza, ogni vicolo e prima o poi avrei trovato la strada di Sonia! Ma questo non significava che non volessi bene ai ragazzi, mi sarei buttato nel fuoco per ognuno di loro. Per un po' di tempo andò tutto bene. Loro leggevano, parlavano, suonavano ed io mi sentivo un po' a casa, in una casa con tanti padroni da amare e proteggere. Il fatto, però, è che gli umani non sono tutti uguali. Quelli che abitavano nel quartiere non volevano che ci stessero anche i ragazzi. Dicevano che erano abusivi, clandestini e che creavano confusione, sporcizia, rumore. Ogni tanto veniva una delegazione di residenti a protestare. I ragazzi, saggiamente, non entrarono in polemica con quei cittadini, |
decisero
anzi di non suonare più, di ascoltare la musica a volume basso e di non
fare movimento oltre le undici di sera. Non bastò, e non ne capii il
perché. Iniziarono ad arrivare vigili, poliziotti, se la presero anche
con me perché non avevo il chip, o una cosa del genere, e perché
non avevo il libretto veterinario. Gli umani in divisa decisero che ero veicolo
di malattie ma i ragazzi mi difesero e dissero quasi in coro: "Mascotte
non si tocca!". Come sono cattive certe persone, più cattive di
un branco.
Un giorno
che passeggiavo sul marciapiede in cerca di un posticino dove far la pipì,
fui avvicinato da tre uomini.
"Vieni qui, Mascotte, vieni qui". Non li conoscevo ma loro conoscevano
me quindi mi avvicinai. Non ebbi il tempo di capire. Uno, che aveva un grosso
paio di guanti, mi si buttò sul muso, un altro mi afferrò le zampe
anteriori e l'altro mi tirò la coda. Sentii un colpo ed una fitta acuta.
Accecato dal dolore lancinante, mi divincolai ed azzannai ad un braccio quello
che mi teneva le zampe. Fu una lotta impari. Mi massacrarono di calci e colpi
di spranga.
I ragazzi mi raccolsero e mi portarono a casa. Chiamarono un dottore che mi
curò. La situazione precipitò. Mentre guarivo dalle ferite, anche
se la mia coda era stata irrimediabilmente spezzata, il centro sociale era bersagliato
dalla gente e dai giornali. Io, da vittima, ero diventato un cane feroce che
aveva aggredito tre poveri passanti, i ragazzi, a cui appartenevo, da presenza
sgradita erano passati a pericolosa. Loro dovevano sloggiare ed io andare al
canile per essere soppresso. Alla fine vennero dei poliziotti cattivissimi che
cominciarono a trattare tutti brutalmente ed a mettere i sigilli ai locali.
Tre ragazzi mi portarono fuori di nascosto, di peso e tappandomi la bocca perché
volevo dire un sacco di cose a quei tizi vestiti di blue. Mi fecero scendere
in una stradina laterale.
"Devi andartene, Mascotte. Se ti prendono, ti fanno male!" mi disse
una ragazza.
"Hai capito?" fece un altro.
Sì, io capivo ma non volevo.
"Oddio! Trovate un sistema per mandarlo via!" esclamò il terzo
con le lacrime agli occhi.
Si fece silenzio, poi presero a dirmi cose brutte.
"Va via! Vattene! Sparisci! Pussa via! Non ti vogliamo vedere mai più!
Capito, bastardo? Vattene o ti prendiamo calci!" e con le mani e le braccia
facevano gesti intimidatori e fingevano di darmi calci.
Sì, avevo capito, avevo capito
Mi stavano abbandonando per salvarmi,
nessuno di loro mi avrebbe mai portato a casa sua. Ed anch'io, prima o poi,
sarei dovuto andarmene, per cercare Sonia. Siamo stati affettuosi compagni di
viaggio, pensai, serberò sempre nel cuore il vostro affetto e l'amore
e la devozione che ho provato per voi.
Me ne andai piano, senza dire niente. Prima di girare l'angolo mi voltai, piangevamo
tutti e quattro.
Divenni
un vagabondo, ogni volta che giungevo in una strada nuova guardavo tutto
con attenzione nella speranza di riconoscere qualcosa di familiare, un dettaglio,
un'indicazione. Niente, niente che potesse condurmi alla mia Sonia. Alla stazione incontrai un altro vagabondo, un umano barbone. Era enorme, ubriaco, con gli abiti logori e le calze bucate nei sandali. "Vieni qui" mi disse. Io ringhiai e gli feci vedere tutti i denti. "Vieni qui" ripeté venendomi incontro. Ringhiai più forte, inarcai la schiena. In un istante mi fu addosso. Gli diedi un sacco di morsi e lui ricambiò con una sporta di pugni. Alla fine eravamo stremati tutti e due. Mentre ansimavamo, mi spiegò cosa voleva da me. |
"Brutto bastardo" esordì "con le buone o con le cattive
tu verrai con me!".
Ero terrorizzato, sapevo bene delle lotte clandestine tra cani. Forse ci siamo,
pensai, è finita, addio Sonia.
"Tu sei perfetto per me. Sei lercio, con la coda spezzata
sei na'
schifezza di cane
E la gente l'elemosina la fa più volentieri per
un bastardo come te che per un cristiano!".
"Ahhh" dissi a quello che non capì "Razza d'idiota, vuoi
che venga a chiedere l'elemosina con te. E mi pareva!".
Restai con lui, tanto valeva provare. Se non mi avesse dato da mangiare, sarei
scappato alla prima occasione. Del resto, in quel momento, frastornato com'ero
dalle botte prese, non sarei potuto fuggire.
Fu così che, l'indomani, seguii il barbone sotto un elegante portico.
Lui aveva un cartello ed una scodella per i soldi. La gente passava quasi sempre
senza manco guardarci ma alcuni si fermavano e mettevano qualche monetina nella
ciotola. Non mi negò, come pensavo, il cibo. Tra di noi non c'era dialogo.
Lui mi chiamava bastardo ed io gli ringhiavo però, davanti alla gente,
facevamo finta di andare d'accordo. Una volta la settimana passava il furgoncino
di una certa missione caritatevole e gli davano roba da mangiare o indumenti
usati. Devo ammettere che un pezzo di panino fresco e un sorso di the caldo
non me li negava mai.
Di sera ero libero, lui si ubriacava e dormiva in un cartone ed io giravo alla
ricerca della via dove abitava Sonia. Di mattina ci incontravamo ed andavamo
a chiedere l'elemosina.
fine della quinta parte