Le vostre storie

 

Olivermax di Romi (quarta parte)

 

Col tempo imparai tante cose. Portavo le scarpe a tutti i componenti della famiglia, stavo al mio posto quando loro mangiavano, capivo quando nell'aria c'era nervosismo ed era meglio tenermi alla larga, quando Sonia era triste ed aveva bisogno di me, ringhiavo ad un cane randagio di cui Marina aveva paura, non ne capii mai la ragione perché lui era proprio un buon diavolo, stavo quieto e bravo dietro in macchina.Vissi con loro per più di un anno. Poi, improvvisamente, Marina e Claudio divennero strani, furtivi, sembrava tramassero qualcosa. Ne ebbi la conferma una volta che Claudio disse a Marina: "Non ne parliamo davanti ad Oliver, lui capisce tutto". Che stavano combinando? Una sorpresa, pensai, del resto sapevo che c'era in programma un viaggio in America, forse era legata al viaggio.
Un giorno Claudio mi portò a fare una passeggiata in macchina. Vidi che puntava verso il mare. Bene, mi dissi, ora faremo l'autostrada e poi andremo in quel paesino dove fanno la pizza buona. Fu così. Prima di farmi scendere, mi tolse il collare, ne fui felice. Mi comprò una pizza enorme e mi portò a mangiarla vicino agli scogli. A un certo punto mi disse: "Seduto, Oliver e aspettami qui".

Sarei voluto andare con lui però ubbidii all'ordine ricevuto. Rimasi ad attenderlo tutto il giorno. Ero preoccupatissimo, pensavo gli fosse successo qualcosa. Alla sera, decisi di disubbidire e di andarlo a cercare. Tornai dove aveva parcheggiato ma l'auto non c'era. Setacciai tutte le strade limitrofe, guardai in ogni bar ma di Claudio nessuna traccia.Non sapevo cosa fare, tornai agli scogli. Mi accucciai davanti al mare. Era una serata calda, sul mare brillavano le luci delle barche dei pescatori, la luna era bianchissima e il cielo puntellato di stelle. Ci misi un po' per comprendere che ero stato abbandonato, molto di più ad accettarlo. I primi giorni patii fortemente fame e sete, che presto divennero mie inseparabili compagne. Ero inesperto, non sapevo cosa fare, in più non volevo allontanarmi dagli scogli, speravo che tornassero a riprendermi. Sonia non mi abbandonerà, la mia piccola amica non può lasciarmi, pensavo. E forse era vero ma poi realizzai che a Sonia, probabilmente, avevano detto che mi ero perso o ero scappato e lei, sicuramente, mi stava cercando in città.
Mi stavo ammalando, lo capivo, fisicamente e moralmente, quasi non mi reggevo sulle zampe. Una mattina, all'alba, per inerzia, abbandonai gli scogli e andai al porticciolo. C'era un gruppo di pescatori che scaricava il pescato.

"Guarda quello!" fece uno di loro indicandomi ad un compagno.
"L'hanno abbandonato, te lo dico io".
"Carogne!" esclamò il primo.
"Dagli da mangiare, va', e da bere soprattutto".
Di lì a poco, il pescatore che mi aveva notato si avvicinò con un secchio ed una cassettina.
"Toh, cane. Sarde ed acqua fresca" mi accarezzò la testa "Non te la prendere, cane, gli uomini sono i veri bastardi mica gli animali". Tornò al suo lavoro ed io mi avventai sui suoi regali. Bevvi, prima di tutto, non ne potevo proprio più, poi mi misi a mangiare. Non avevo mai assaggiato il pesce crudo ma quello mi parve buonissimo, il cibo più buono che avessi mai mangiato. Una volta rifocillato, mi accucciai all'ombra sulle alghe. Volevo tornare a casa, era quella la mia idea fissa, e ritrovare Sonia. Dopo qualche ora, il pescatore tornò da me e mi parlò ancora.

"Me ne vado, amico, vado a dormire. Tieni, questi erano rovinati e non li hanno voluti però per te vanno benone. Ora ti riempio il secchio… Sei un bel cane, sai? Se mia moglie non fosse allergica al tuo pelo, ti porterei con me. Ciao, bello, e stai su!". Gli scodinzolai, era un brav'uomo.
Restai lì tutto il giorno, mi spostai solo quando girava il sole. Di sera, ricomparve.
"Ancora qui, cane? Ti piace il pane? Guarda, te ne ho portato un bel pezzo e non è neanche troppo duro. Ora esco in mare, domani fatti trovare che ti do il pesce. E dai! Togliti quel muso triste! Pure io, una volta, sono stato abbandonato e di lei non ho più saputo niente, però, come vedi, sono ancora vivo!" mentre parlava mi accarezzava. Sentii il bisogno di rispondergli, mi misi a mugolare, ad abbaiare piano e un po' a guaire. Volevo dimostrargli la mia gratitudine e di meglio non sapevo fare che sedermi e dare la zampa, così lo feci. Mi sorrise ma poi si fece serio e mi disse: "Grazie, cane, però impara a dare la zampa solo alla brava gente, magari ignorante e con le pezze al culo come me, però brava". Mi venne da piangere.
Vidi il mio benefattore salire su una barca e avanzare nel mare scuro.

Per una notte ancora fui da solo, senza Sonia accanto a me. Sentivo che le mancavo per quanto lei mi mancasse. Anche lei stava soffrendo, anche lei, mia piccola e dolcissima bambina. Un tempo mi avevano separato da chi amavo per soldi, adesso per un viaggio, per uno stupido viaggio in un posto lontano. Avrei preferito che mi avessero detto Oliver, resterai a casa da solo per un mese con acqua e croccantini oppure che mi avessero affidato a qualcuno o messo in pensione, avrei accettato qualsiasi soluzione ma essere abbandonato così, senza che avessi combinato niente di male, senza che fossi stato monello, no, questo non riuscivo ad accettarlo. E pure se avessi mangiato la scopa o stracciato l'enciclopedia, quella sarebbe stata una punizione troppo grande, troppo grave, troppo orribile. A Marina e Claudio non importava se morivo investito o di fame? Non provavano, dunque, nulla per me? Ma perché? Io li amavo, e li avrei pure perdonati se fossero tornati. Perché mi avevano fatto questo? Possibile che un viaggio fosse più importante di me? E Sonia? Non avevano pensato al dolore che le avrebbero dato? Eppure sapevo che anche loro per lei si sarebbero fatti fare le punture senza piangere. Eppure avevano avuto cura di me! Ma forse è nella natura degli umani abbandonare chi diventa una presenza scomoda, morto un papa se ne fa un altro, dicono loro. Magari, al ritorno dall'America, avrebbero comprato un nuovo cane per Sonia e l'estate successiva avrebbero abbandonato pure lui. Sonia, Sonia! Dovevo trovarla, volevo che sapesse che non ero scappato, che non l'avevo lasciata. Lei doveva conoscere la verità, anche se non fossimo mai più tornati insieme. No, la mia bambina non doveva ricordarmi come un traditore, come un ingrato, come un infame!

Nel chiarore dell'alba le barche rientrarono nel porticciolo. Vidi il pescatore armeggiare in mezzo al pesce, gli abbaiai e lui mi salutò con la mano. Dopo il mercato, venne da me e mi portò pesce ed acqua. Si sedette sulle alghe.
"Se resti qua, cane, non ti farò mancare acqua e cibo. Beh, certo, per quello che posso, per ora col pesce va bene ma è a periodi. Sai, mi sto costruendo una casetta fuori paese. Il terreno era di mio nonno, viene su bene ma piano. Con le mie mani, sai cane? Beh, soprattutto con quelle di mio fratello che è muratore. Là staresti bene. Potresti stare fuori e mia moglie neanche lo sentirebbe il tuo pelo". Io ascoltavo in silenzio. "Però ci vorrà ancora tempo, stretto stretto un anno, e tu chissà dove sarai tra un anno. Quando avremo casa nostra faremo un figlio. Tu ne hai mai avuti, figli? Vabbè che voi cani maschi ve ne fregate dei figli e poi tu sei pure molto giovane, si vede. Io invece un figlio lo voglio, anche due. Non so se saprei insegnargli qualcosa, forse no, però sarebbe bello crescerlo, portarlo in barca con me, accompagnarlo a scuola, fargli le feste di compleanno". Mi guardò negli occhi. "Non gli farò mancare niente, a mio figlio o a mia figlia. Ma tu sei cane, che ne capisci di queste cose? Forza, salutiamoci, dammi la zampa che vado a dormire". Gli misi il muso sulle gambe, poi porsi la zampa e scodinzolai.
Per un umano così valeva la pena di aspettare anche più di un anno ma io dovevo trovare Sonia, ormai avevo deciso.
Partii quella sera stessa, non volevo rivedere il pescatore, mi sarei sentito ancora più triste.


Per andare in città conoscevo solo l'autostrada. Trovarla fu molto difficile, impiegai giorni, giorni in cui ebbe inizio una nuova era della mia vita.
Sapevo già che i cani fanno branco ma non avevo mai avuto modo di entrare in contatto con un gruppo. Scoprii che vige una gerarchia ferrea e pericolosa. La prima volta che vidi un branco ero nei pressi di alcuni cassonetti dei rifiuti. Ero affamato e mi era già capitato di rovistare nel pattume. Uno dei cassonetti era spalancato ma, oltre alla puzza dell'immondizia, sentivo quella di pipì. Senza dubbio, quel territorio era marcato ma io avevo troppa fame per fare dietro front.
Fui subito accerchiato dal branco che ringhiava. Mi venne un colpo. D'istinto mostrai anch'io le zanne ma non servì a nulla. Un grosso lupo si staccò dal gruppo e mi aggredì, immediatamente lo seguirono gli altri. Abbaiavo, mordevo ma era inutile. Scappai con la coda tra le gambe e corsi a perdifiato per chilometri. Quando mi fermai, ero distrutto.
Perdevo sangue dalla testa e da una zampa, il mio pelo era tutto arruffato e sporco. Mi leccai la ferita della zampa, faceva male ma non era molto profonda, per la testa non potei far nulla. Quella volta mi sfamai grazie ad un sacchetto randagio di immondizia, abbandonato sul ciglio di una strada.
Zoppicai per qualche giorno, poi la zampa tornò normale e sulla testa mi spuntò una bella crosta.
Ormai ero un cane sporco e pulcioso, la gente mi evitava, i più pietosi mi davano un boccone ma non si avvicinavano troppo. Le mamme dicevano ai bambini che ero malato e pericoloso. Le pulci erano un vero tormento, mi grattavo e grattavo ma mi restavano sempre addosso, la faccenda migliorava quando mi buttavo a mare.
Trovata, finalmente, l'autostrada, mi resi conto che quella via non era praticabile, le macchine mi avrebbero ucciso. Decisi di fiancheggiare la carreggiata. Andò bene per qualche chilometro, poi la strada sparì in una galleria.


Ero perplesso. Entrare anch'io nella galleria era impensabile, mi avrebbero falciato subito. Valicare la montagna in cui era ricavata, mi sembrava impresa degna di un'aquila. A complicare la situazione giunse un acquazzone estivo. Cercai un riparo e studiai a lungo la situazione. Potevo anche tentare di attraversare la montagna, ma avrei trovato cassonetti dei rifiuti anche là? Se non ce ne fossero stati, sarei morto di fame. Ero già magro e sciupato, non potevo rischiare di morire prima di avere rivisto Sonia. Mi venne un'idea. Marciai in direzione del mare, prima o poi quella montagna sarebbe pur finita e lì l'avrei doppiata per poi tornare all'autostrada.

In quest'impresa incontrai una donna cattiva ed un gatto buono. La donna abitava in una villetta vicino al mare, io mi ero fermato sotto il suo muretto per passare la notte. Quando mi scoprì, iniziò ad inveire. Sulle prime neanche capii che l'aveva con me. M'innaffiò con un tubo d'acqua, poi uscì e mi tirò delle pietre. Fuggii terrorizzato ed avvilito. Il gatto lo conobbi vicino ad una discarica. Non stava bene, aveva un occhio chiuso e camminava di traverso, come se fosse ubriaco. Mi soffiò subito ma io, capendo che stava male, non reagii. Nell'immondizia trovai dei ritagli di carne, un po' vecchi e duri ma mangiabili. Ne presi alcuni con i denti e li portai al gatto.

Mi soffiò ancora, glieli lasciai cadere vicino e finsi di andare via. Lo osservai da lontano e vidi che, per quanti sforzi facesse, non riusciva ad arrivare alla carne. Tornai sui miei passi, non potevo far finta di niente.
"Se non mi graffi, ti metto la carne sotto i baffi".
"Chi sei?" chiese aggressivo.
"Mi chiamo Oliver".
I gatti sono orgogliosi, pensai che non volesse abbassarsi ad accettare il mio aiuto così gli portai la carne senza il suo permesso.
"Non è male" gli dissi mentre l'addentava.
"No, però non riesco a masticare!".
"Cos'hai? Sei vecchio?".
"No, sono giovane ma sono debilitato".
"E l'occhio chiuso?".
"Quello è perché sono malato".
"Ma cammini?".
"Sono… confuso. Stavo bene, poi ho cominciato ad avere giri di testa, a camminare storto, a vedere meno".
"Avevi un padrone?".
"Sì, appena ha capito che stavo male, m'ha messo in un sacco ed è venuto a buttarmi qui, disgraziato!". Un'altra vittima, pensai.


"Non puoi restare qui, più in là c'è un branco di cani. Devi andare via".
"Vuoi che non lo sappia? Mi hanno già adocchiato".
"Non c'è tempo per discutere" e lo afferrai per la collottola.
"Oèè, cane Oliver, piano! Oh, ohh!!! Ma che vuoi farmi?! Non stringere così".
Non diedi retta alle sue lamentele e lo portai nel mio ricovero momentaneo. Siccome il gatto era messo davvero male, decisi di fermarmi qualche giorno per dargli una zampa.
Non era in grado di lavarsi e questo lo rendeva davvero irritato, i gatti sono fanatici della pulizia. Per aiutarlo, gli leccavo il muso e gli pulivo gli occhi, la qual cosa gli dava subito sollievo. Jonny, questo era il suo nome, si rese conto di non avere nulla all'occhio ma che era soltanto l'impossibilità a lavarsi, perché non coordinava i movimenti, a renderlo cisposo e farlo chiudere.
Da mangiare non trovavo mai molto ma, almeno, riuscivo sempre a portare qualcosa a Jonny. Dormivamo assieme, lui si metteva tra le mie zampe, evidentemente si sentiva più protetto, anche se non me l'avrebbe mai confessato come io, del resto, non gli dissi mai che avevo più paura di lui.

Ero preoccupato. Forse, per farlo guarire, ci volevano un dottore, delle medicine. Forse il pescatore l'avrebbe aiutato ma ormai ero lontano da lui e Jonny non poteva camminare. Si lamentava sempre perché gli faceva male la testa e gli ronzavano le orecchie. "Ma fammi vedere un po'" gli dissi una mattina "che hai in queste orecchie". Guardai dentro.
"Sono sporchissime!".
"Oh! Saranno pulite le tue!".
"Ma tu hai le zecche nelle orecchie!" esclamai stupito.
"Nooo!".
"Sì, te lo giuro… Ecco perché sei squilibrato". A questo punto Jonny disse delle parolacce.
Ci voleva proprio un umano per risolvere il problema di quelle orecchie. Fu lui a prendere una decisione.
"Vicino casa mia c'è un ambulatorio veterinario. Devi portarmi lì, Oliver".

Ci mettemmo in cammino di buon mattino, lo portavo tra i denti avendo cura di non fargli male. A destra, a sinistra, dritto mi diceva lui. Sarebbe andato tutto abbastanza liscio, se non fosse stato per due cani. Volevano Jonny, non me, mi fecero capire chiaramente che, se avessi mollato il gatto, non mi avrebbero fatto niente. Non ci stetti.
Posai delicatamente Jonny per terra e ringhiai molto, molto ferocemente. Ringhiarono anche loro, il mio pelo divenne irto. Attaccai io per primo. Afferrai alla gola uno dei due e strinsi forte, l'altro mi era sulla schiena e cercava di azzannarmi le spalle.
"Scappa, Oliver, scappa!" mi gridava Jonny disperato.
"No! No! Non ti farò sbranare da loro!" ebbi fiato di rispondergli.
Forse fu un miracolo, non so, ma, a un certo punto, i due cani mi lasciarono e scapparono. Io gli abbai dietro incredulo.
Fino a quel giorno ero sempre fuggito davanti ai miei simili, quella era la prima volta che restavo, e l'avevo avuta pure vinta!
Jonny, apprensivo, mi controllò tutta la pelliccia e sentenziò che avevo solo qualche graffio. Anche questo mi parve un miracolo. Alla fine mi disse 'grazie' e, tremante sulle zampette, cercò di darmi una testata sul muso. Mi emozionai tantissimo.

Arrivammo all'ambulatorio nel pomeriggio inoltrato. Avevamo già deciso come comportarci. Io cominciai ad abbaiare per richiamare l'attenzione e Jonny si sdraiò accanto a me miagolando sommessamente. Qualcuno fece subito capolino dall'ambulatorio, erano clienti. Un vecchio signore credeva che volessi far male al gatto e venne per cacciarmi ma, per fortuna, una ragazza lo fermò e, nonostante fossi sporco ed infangato, mi fece una carezza. È fatta, mi dissi. Di lì a poco venne un uomo con un camice bianco che si piegò su di noi.
"Cos'hai da abbaiare?" mi misi a mugolare e a dare la zampa. "E al tuo amico qui che è successo?" lo prese per la collottola e lo guardò con fare professionale.
"Cos'ha il gatto?" chiesero i clienti.
"È disidratato e affamato".
"E perché non sta in piedi, poverino?" fece un bambino.
"Questo ora vedremo di scoprirlo" e se lo portò verso la porta.
"Sei in buone mani!" abbaiai a Jonny "Questo ti rimette in sesto!".
"Sì, Oliver, e lo devo a te, amico, solo a te. Non ti dimenticherò!".
"Neanch'io, neanch'io……".
"Guarda un po' questo cane!" disse la ragazza "Sembrava che volesse richiamare l'attenzione sul gatto!".
"Dev'essere intelligente" s'intromise un uomo "Diamogli da mangiare".
Ricevetti una ciotola con dei deliziosi bocconcini di carne cotta e molte, molte carezze che mi commossero e mi fecero ripensare a Sonia e alle sue coccole.
Me ne andai satollo e felice di avere aiutato Jonny. Sapevo che non ci saremmo più rivisti ma il pensiero che sarebbe stato curato e rifocillato era superiore al dispiacere.

Tornai sulla mia strada, la mia strada verso Sonia.
Quando riuscii a doppiare la montagna, mi sentii un cane realizzato. A casa, una volta, avevo visto un documentario in cui degli umani arrivavano sulla luna e vi piantavano una bandierina, avrei fatto lo stesso. Ripresi a seguire l'autostrada. Ricordavo che, molto più avanti, c'erano altre due gallerie ma anche che la strada era molto vicina al mare, superarle non sarebbe stato un problema.
Quando giunsi alle gallerie il tempo era cambiato. Il caldo era diventato tepore e la sera faceva freddo, il cielo era sempre più spesso abitato dalle nuvole. Ero a metà strada, lo sapevo, Sonia doveva essere tornata dall'America già da parecchio.
Dopo le gallerie, per un po', mi unii ad un branco. Ero un semplice gregario ma il freddo pungeva e di notte era meglio star vicini. Le leggi del branco non mi piacevano. Non m'importava di chinare la testa al capo, di mangiare dopo i più grossi ma proprio non tolleravo la violenza gratuita. Attaccavano gli altri cani, rincorrevano i gatti, spaventavano gli umani. Litigai, un giorno, per una gatta ed i suoi cuccioli. Non avevo dimenticato Biglia e il conforto che mi aveva dato quand'ero nel negozio, sentivo un debito di riconoscenza verso i felini. Riuscii a salvare la gatta ma capii che, da quel momento, la mia incolumità sarebbe stata in pericolo. Senza alcun rimpianto, lasciai il clan nel cuore della notte.

fine della quarta parte

 

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